La moda è uno di quei settori che, a detta, di molti sta attraversando un serio periodo di crisi. Che cosa sta succedendo in questo comparto economico così fondamentale per il nostro Paese? Quale futuro si delinea? Lo abbiamo chiesto a Fabiana Giacomotti, una delle più importanti e conosciute esperte del settore.
Tu sei una storica e analista del costume molto nota e apprezzata, qual è stato il tuo percorso e quale la molla che ti ha spinto?
Grazie per l’apprezzamento, che credo corrisponda a un grande impegno da parte mia per avvicinarmi davvero a questo settore che conoscevo solo attraverso la frequentazione degli atelier con mia madre da piccola e per passione personale. Sono specialista di letteratura francese del Secondo ottocento, e fino a quando Paolo Mieli mi mandò ad affiancare Fabrizio Sclavi alla guida di Amica ero giornalista di economia dei media e delle telecomunicazioni. Feci un triplo salto carpiato da inviato de Il Mondo a vicedirettore di una testata storica della moda e dello stile. Per certi versi, uno choc. Però, da subito, iniziai a chiedere di visitare industrie, sartorie, tessiture, artigiani. Ho una passione sfrenata per i filati, per esempio. Il mio “Pitti” preferito è appunto Pitti Filati.
Come sta reagendo il modo della moda a questa crisi?
La moda sta reagendo bene, al punto che per alcuni non c’è alcuna crisi. Ho amiche – faccio il caso della stilista Federica Tosi – che in questi due mesi avrebbero venduto anche il 20 per cento in più se avessero potuto produrre adeguatamente la scorsa primavera. Chi ha saputo intercettare i gusti del momento sta andando bene. Poi, in generale, il calo c’è e si sente. Nel 2020 l’Italia ha perso 50 miliardi di esportazioni, e le piccole medie imprese del made in Italy- in ogni settore, non solo in quello della moda – dovranno imparare a rispondere a un mercato sempre più digitale. La trasformazione in atto è velocizzata dall’emergenza ma, come si direbbe in inglese, is here to stay. Non si tornerà indietro.
Come pensi che cambierà questo settore, una volta usciti dalla pandemia?
Mi piace l’idea di una penisola costellata di meravigliosi artigiani che vendono nel mondo attraverso i marketplace (ce n’è uno, ArteMest, sviluppato ormai cinque anni fa da un’imprenditrice italo-americana, Ippolita Rostagno, che in quest’anno di lockdown ha avuto una crescita esponenziale). Ma la moda sarà sempre più, o per meglio dire di nuovo, un fenomeno di prossimità, una scoperta. Non è un caso che gli stessi grandi marchi stiano spostando sempre di più l’accento sull’esperienza valoriale e su valori diversi da quelli del brand per migliorare le proprie performance economiche. Ormai si sceglie una marca perché se ne condividono i valori, non per il marchio. Perlomeno da questa parte del mondo. Ci sarà anche una grandissima crescita – già la si vede – del vintage. Perfino nelle sneakers. Tutti gli indicatori parlano di un mercato da 30 miliardi di dollari in tre anni.
Quali consigli daresti ai giovani che desiderano lavorare, a vario titolo, in questo settore?
Di non perdersi con le scuole di moda, a meno che non vogliano fare i sarti o i modellisti. Di studiare in università vere, materie serie. Negli ultimi anni ho incontrato una messe di stilisti ignoranti di tutto – storia, storia dell’arte, filosofia, principi base dell’economia, – costretti a circondarsi di consulenti per arricchire il proprio pensiero. Talvolta non sono nemmeno in grado di identificare quelli. Un disastro. Se sapessi noi giornalisti e analisti che razza di sfondoni ascoltiamo. Un vestito può e deve essere espressione di pensiero e di cultura. Quando questi mancano, si vede sempre