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COSA ACCADE AI GIOVANI DEL NOSTRO PAESE?

da | Mag 17, 2024 | La Bussola

Il dato, abbastanza allarmante, ha fatto il giro della stampa, catturando l’attenzione e la preoccupazione di tutti. L’Istat fotografa e ci restituisce l’immagine della composizione del nostro territorio. Una fotografia complessa che sintetizza il processo demografico in corso negli ultimi 30 anni e ci aiuta a scorgere la fisionomia dell’Italia che sarà.

Nel capitolo 4 del Report Annuale Istat 2024, la sezione dedicata a rappresentare la composizione demografica della nostra popolazione inizia così:

“La disponibilità di risorse naturali e culturali, le condizioni economiche locali e l’accessibilità ai servizi educativi o sanitari, solo per citare alcuni esempi, influenzano il benessere e le opportunità di sviluppo personale e delle comunità. In questa sezione, si metteranno in luce le condizioni dei più giovani e dei più anziani” (Giovani e Anziani: Risorse per i territori)

Capiamo meglio di cosa stiamo parlando.

Cosa ci dice il report sulla composizione demografica della nostra bella Italia?

Quando parla di giovani l’Istat circoscrive la fascia anagrafica di riferimento negli anni che vanno dai 18 ai 34. Sono ragazzi e ragazze che, nella maggior parte dei casi, stanno concludendo il percorso formativo della scuola secondaria di secondo grado e si trovano di fronte ad un bivio cruciale: continuare gli studi o inserirsi nel mondo del lavoro. Qualsiasi decisione prenderanno, questi giovani fanno parte del tessuto sociale più prezioso di qualsiasi paese, rappresentano la forza e il futuro della nazione.

Nel rapporto si legge che al 1° gennaio 2023, in Italia i giovani di 18-34 anni erano poco più di 10,3 milioni.  Il peso sulla popolazione, 17,5 per cento attuale contro 22,9 per cento sul 2002, è in forte decremento e inferiore alla media degli altri Paesi dell’UE (19,3 per cento).

Da cosa dipende questo calo?

L’Istat parla di una vera e propria “crisi demografica della società italiana” e ci dice che le cause sono da ricercarsi nel progressivo calo di natalità e dalla conseguente riduzione dei giovani.

Nulla di nuovo, quindi.

Il fenomeno è infatti parte di un processo più ampio sia a livello temporale che geografico: coinvolge quasi per intero l’Unione europea, dove negli ultimi due decenni (2001-2023) si è registrata una perdita netta di circa 17,5 milioni di giovani.

Quando è cominciata l’inversione di tendenza?

Nella seconda metà degli anni Novanta inizia, in Italia,  la diminuzione dei giovani.

Nel 1994, il secondo baby boom, faceva registrare un’importante picco  (15.183.990), ma, da allora, il calo è stato costante: nel 2023 è di circa 5 milioni sul 1994 (-32,3 per cento).

Nei primi anni Ottanta, i giovani (18-34 anni) rappresentavano il  24,4 per cento della popolazione italiana, questa incidenza è andata via via a diminuire ma, la riduzione più consistente si verifica negli anni successivi e assume una portata più ampia nell’ultima fase storica (17,5 per cento nel 2023)

Come cambia il fenomeno nelle diverse aree geografiche dell’Italia?

Pare che nel Mezzogiorno la riduzione del numero di giovani sia molto consistente, perché alla denatalità si associa da tempo una ripresa significativa dei flussi migratori. Invece nel Centro e nel Nord (soprattutto nel Nord-est), l’effetto congiunto di flussi migratori positivi e di una maggiore incidenza dei nati da genitori stranieri ha rallentato il declino della popolazione giovane rispetto al Mezzogiorno. Il Report rileva che la collocazione nelle regioni del Mezzogiorno costituisce sempre un fattore specifico di penalizzazione.

Sia nei Centri che nelle Aree Interne – ossia nei contesti più urbanizzati o rurali – del Mezzogiorno si osservano sistematicamente perdite di giovani ben più significative che altrove.

Il complicato percorso di distacco dalla famiglia dei giovani

Il rafforzarsi, nei decenni, di queste tendenze demografiche presentano un percorso più lungo e complicato verso l’età adulta. L’Istat parla di “dilatazione delle transizioni familiari” riferendosi a tutti i processi di “sganciamento” dal nucleo famigliare verso la costituzione di un percorso di vita autonomo: l’uscita dalla casa dei genitori; la formazione di una famiglia propria; la genitorialità. In Italia, la quota di giovani tra 18 e 34 anni che vivono con i genitori è cresciuta di 8 punti percentuali dal 2002 (59,7 per cento), arrivando al 67,4 per cento nel 2022.

“Calo della popolazione giovanile e posticipazione delle transizioni familiari presentano spesso nessi reciproci, e risentono di specificità territoriali. Limitatamente al livello regionale, qui si può sottolineare come i contesti caratterizzati da elevata disoccupazione e debole sistema produttivo presentino un più accentuato calo dei giovani e transizioni posticipate verso l’età adulta.

A sua volta, la permanenza prolungata in famiglia appare sintomatica dei vincoli di contesto versus l’autonomia propria di uno status adulto: indipendenza economica e abitativa, in primis. Emerge un nesso significativo tra assetto socio-economico robusto e compimento della prima transizione familiare, di norma propedeutica alle successive. Le convivenze protratte risultano più diffuse dove il tasso di disoccupazione è elevato e bassa la ricchezza prodotta, e viceversa. Tutto il Mezzogiorno si colloca nel quadrante caratterizzato da opportunità occupazionali ridotte e da permanenze protratte in famiglia. Le regioni settentrionali presentano condizioni di contesto più favorevoli e transizioni di norma più brevi. Tutti questi andamenti rischiano di alimentare il declino demografico, anche per le maggiori probabilità di interferenza con i limiti fisiologici della procreazione. Ciò avviene soprattutto nel Mezzogiorno, dove nell’ultimo decennio si è accentuato, soprattutto tra le cittadine italiane, il fenomeno della denatalità causato dalla posticipazione delle nascite”

Chi rimane per più tempo in casa?

Gli uomini che rimangono nella famiglia di origine sono di più rispetto alle donne, ma tra le seconde si osserva un forte incremento. Nel Mezzogiorno si osserva la dilazione dei tempi di formazione di un nucleo familiare proprio e della procreazione del primo figlio, soprattutto per l’età al primo matrimonio (31 anni circa), benché si registri anche qui un aumento generalizzato dell’età al primo figlio.

L’invecchiamento della popolazione e le conseguenze sul sistema sociale e produttivo

La concomitanza della transizione demografica con le migrazioni, che fino all’inizio degli anni Settanta hanno attratto consistenti flussi di persone dalle aree interne e zone rurali verso i grandi centri, è stata la causa dell’aumento della popolazione anziana.

Gli anziani invecchiano più volentieri nelle città che offrono molti vantaggi rispetto alle zone più rurali. Allo stesso tempo presentano anche delle criticità, che richiedono azioni mirate.

Come si legge dal rapporto “L’invecchiamento demografico nel territorio urbano richiede capacità di adattamento e interventi di trasformazione, al fine di usare, o di rigenerare, spazi, strutture e regole pensati per un diverso tipo di collettività. Una capacità traducibile in pratiche sia di modificazione dello spazio, sia sociali, per progettare interventi volti a migliorare tanto le condizioni di vita, quanto la percezione dell’invecchiamento”.

Ci dirigiamo verso un modello di città “a misura di anziano” (age-friendly city) nel tentativo di sviluppare comunità urbane a sostegno dei cittadini anziani, dove si promuova l’invecchiamento attivo aumentando le opportunità di salute, partecipazione e sicurezza, al fine di migliorare la qualità della vita degli anziani e il benessere dell’intera comunità.

All’inizio dell’anno 2023, la popolazione residente in Italia di oltre 64 anni ammonta a 14 milioni 181 mila persone (24 per cento del totale): oltre 3,3 milioni in più rispetto al 1° di 20 anni prima.

I “giovani anziani” (persone di età compresa tra i 65 e i 74 anni) costituiscono quasi la metà del totale; trent’anni fa questa fascia di popolazione era più consistente (il 10% in più). La causa è chiaramente imputabile all’allungamento della vita media, che significa incremento dei “grandi anziani”, con almeno 85 anni, per i due terzi donne e oggi pari al 16 per cento della popolazione anziana.

La rete familiare, come evidenzia il report “rappresenta un supporto fondamentale per gli anziani e l’indice di sostegno ai genitori e parenti anziani, in crescita negli anni, arriva nel 2023 a 16 persone di 85 anni e più per 100 adulti di 50-64 anni nelle città metropolitane (16,5 per cento in Italia); il segmento di popolazione di 50-64 anni rappresenta il sostegno nel futuro per genitori o parenti anziani”.

L’attuale popolazione con almeno 65 anni si presenta notevolmente differente rispetto al passato.

Diversi sono gli stili di vita e relazioni sociali, la partecipazione al mondo del lavoro e, non per ultimi, un livello più elevato di istruzione e migliori condizioni di salute.

…e il mercato del lavoro?

L’invecchiamento attivo è fortemente caratterizzato da una prolungata permanenza nel mondo del lavoro. Nel 2021, gli occupati di 65 anni e più erano 915 mila (tasso di occupazione pari al 6,5 per cento a livello nazionale).  Come è intuibile, i livelli occupazionali delle fasce più adulte, sono stati condizionati dalle riforme delle pensioni. L’innalzamento dei i requisiti anagrafici di accesso ai benefici, hanno determinato una maggiore permanenza nel mondo del lavoro, facilitata anche da migliori condizioni di vita nella fascia 65-74 anni. Il tasso di pensionamento segnala che nei territori metropolitani sono in pensione 87 persone di 65 anni e più ogni 100 (un punto sotto la media nazionale): nel 2012 erano 92 su 100.

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