Gli organi di informazione, con il perdurare di questo periodo di emergenza, hanno assunto per tutti un’importanza via via crescente. Un ruolo da protagonista lo sta svolgendo, soprattutto, tutta l’informazione di servizio, che ci sta aiutando a districarci fra i vari DCPM e a fare chiarezza sulla diffusione del virus. Per questo abbiamo deciso di ascoltare, oggi, la voce di Mariangela Pani, giornalista professionista. Fiorentina, da circa 18 anni all’agenzia di stampa Adnkronos, dove fa parte, fin dalla sua creazione della sezione specializzata sul lavoro (Labitalia). Formazione e carriera molto eclettica. Ha iniziato a lavorare nei giornali nel 1977, ma ha esperienza anche di uffici stampa: l’ultimo in qualità di capo ufficio stampa, per Italia Lavoro, agenzia tecnica del ministero del Lavoro diventata poi Anpal. Nel mezzo, due matrimoni, due figli, molti cani, soprattutto bassotti, per i quali nutre un amore viscerale.
Che cosa ti ha spinto vero questo lavoro?
La casualità. Una sliding door che si è aperta al momento giusto, si direbbe adesso. Ma, naturalmente, dietro al caso che mi ha quasi catapultato nella redazione di quello che allora era forse il giornale più ambito dai giovani (La Repubblica), c’era una predisposizione alla scrittura e al racconto che io ho sempre coltivato. In breve: una mia cara amica che lavorava a Roma a La Repubblica, mi ha detto che cercavano persone per la segreteria di redazione, vero cuore pulsante del giornale. Ho fatto un colloquio, mi hanno preso subito. Era il 1977. La sede di Piazza Indipendenza, che odorava di inchiostro (al piano terra c’erano le rotative) e sigarette, è stata la mia casa per diversi anni e lì ho imparato il 90% di quello che poi mi sarebbe servito nel mio lavoro. L’umiltà, l’ascolto di chi ne sa più di te, l’ostinazione, la puntigliosità, il non dare nulla per scontato. E non arrendersi, non mollare. Dalla segreteria sono passata per un breve periodo alla cronaca romana e poi ho fatto tante esperienze, cambiando spesso testata e media, lavorando in quotidiani, mensili, case editrici, radio, siti web. La multiformità di questo lavoro è sempre esistita, non l’hanno inventata le nuove tecnologie. Semmai internet, gli audiovisivi e le tv danno una mano ad esprimerla compiutamente.
Che cosa ti piace di più e cosa non tolleri o ti piace di meno di quello che fai?
In questo momento è innegabile che il lavoro giornalistico vive una fase di compressione. Ritmi di lavoro molto sostenuti, scarsità di organici dovuti alla forte crisi che ha colpito l’editoria, molto tempo dedicato nella giornata alle nuove tecnologie di cui si patisce un’obsolescenza quasi strutturale. Non si fa in tempo ad acquisire una competenza su di un nuovo programma, che questo è già diventato vecchio e bisogna subito ricalibrare le conoscenze. Il rischio che diventi un lavoro ‘tecnico’ c’è. Ma per fortuna c’è anche il lato bello, che per me non è la creatività fine a sé stessa (quella la si può esercitare in altri ambiti, scrivendo un racconto per esempio), ma è il fatto di svolgere un SERVIZIO. Per me il giornalismo è innanzitutto servizio, ed è tutto un servizio pubblico. Tutto, non solo quello della Rai. A sera quando spengo il pc, sono soddisfatta se anche per un piccolo pezzetto, ho contribuito a portare un po’ di luce su qualcosa che sarebbe potuto rimanere in ombra, o se ho condiviso una conoscenza di un fatto o di un’idea interessante, se ho dato voce a chi con le sue azioni, costruisce qualcosa di positivo.
Che cosa ti è mancato di più, della tua professione, durante il lockdown?
Sono stati mesi molto duri per tutti, prima di tutto da un punto di vista umano. La brusca interruzione delle relazioni, la preoccupazione per i nostri cari… tutto questo ha avuto un riflesso anche sul lavoro naturalmente. Per fortuna il mondo dell’informazione è flessibile ed anche ad alto tasso di digitalizzazione, per cui l’agenzia è stata riorganizzata velocemente permettendoci di lavorare in piena autonomia da casa. Certo, come in tutti i lavori totalmente da remoto, manca il contatto umano coi colleghi e con tutti gli stakeholder, che spesso sono anche le nostre fonti. Una mail difficilmente sostituirà un caffè preso al bar scambiando due chiacchere e informazioni. Credo comunque che il cambiamento sarà irreversibile e che si andrà verso una sorta di smart working 2.0, che non sarà semplicemente il lavoro da casa né il lavoro totalmente svincolato dal contatto fisico con l’azienda. Sarà un mix dove al lavoro da remoto si alterneranno momenti di lavoro in uffici attrezzati in co-working
Che consigli daresti ai giovani?
Consigli non ne ho mai dati volentieri. Ognuno ascolti sé stesso, creda nei sogni, e sia ostinato. Poi sia pronto anche a sbagliare. Soprattutto a sbagliare, perché gli esseri umani sbagliano e dagli sbagli imparano. Ecco magari un consiglio potrebbe essere questo: diffidate da chi non sbaglia mai.